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I dialetti dell'isola d'Ischia

Brevi cenni sulle inflessioni dialettali di Forio e Serrara Fontana

Il professor Kaden Woldemar docente di Lingua e Letteratura tedesca a Napoli sul finire del XIX secolo e assiduo frequentatore dell'isola d'Ischia, scrisse nel suo saggio "L'Isola d’Ischia nei suoi aspetti naturali, topografici e storici del passato e del presente" (Luzern, Prell,1883) che "anche per chi ha imparato l'italiano con un maestro fiorentino e con le migliori grammatiche e con metodi molto efficaci, sarà difficile parlare con loro, perché tutte parlano nel dialetto più oscuro, mescolato con una gran quantità di lemmi antichi, greci, latini, spagnoli e di altri sostrati linguistici". Il riferimento dell’autore è al dialetto utilizzato dalle donne di Serrara Fontana verso la fine dell’800, aggiungendo che: "si capiscono più facilmente i dialetti di Lacco Ameno, di Casamicciola o di Ischia, cioè le località sul lato settentrionale, aperto, frequentato, dell?isola. Sul lato meridionale e nelle località di contadini situate in alto anche l?italiano dell?Italia centrale si sente perduto, qui viene offerto un lessico ignoto".

In effetti, fermo restando lievi differenze fonetiche riscontrabili all’interno di ciascuno dei dialetti dei sei comuni dell’isola d’Ischia (all’epoca di Woldemar erano 7, essendo la frazione di Testaccio comune a sè) il dialetto della costa settentrionale è molto più simile a quello napoletano, diversamente dai comuni del versante meridionale, Forio e Serrara Fontana.

Anche il poeta, scultore e giornalista foriano Giovanni Verde (1880 - 1956) nel capitolo "Il dialetto foriano" pubblicato all’interno della raccolta "I sonetti inediti di Giovanni Maltese" (1955) insiste autorevolmente sul punto, sottolineando come la l, la doppia ll e la gl a Serrara Fontana suonano in maniera straordinariamente simile alla d siciliana, concludendo che quasi sicuramente ciò era (ed è) da ricondurre al dominio siracusano dell'isola d’Ischia, databile a partire dal 470 a.C. e tuttavia non durato molto a lungo a causa dell'instabilità sismica del territorio. A Forio, diversamente da Serrara Fontana - continua il Verde - queste stesse consonanti (l, ll e gl) "si schiacciano in un particolare suono palatale somigliante alla gutturale gh".


A questo punto è meglio fare dei brevi esempi per rendere tangibili le differenze cui si è accennato, servendoci ancora degli spunti del Verde al riguardo. Nel dialetto di Serrara Fontana, nota l’autore, l’aggettivo bello viene pronunziato bèdde, mentre a Forio bègghie; lo stesso avviene per il termine figlio, o per l’avverbio di luogo : nel primo caso vengono resi con fiddu e ddà (Serrara Fontana); nel secondo con figghie e ghià (Forio).

Detto delle differenze è il caso di passare alle analogie tra i due dialetti, la più evidente delle quali è l’uso frequente di dittonghi, trittonghi e iati, anche se, le diverse combinazioni fonetiche tra vocali (meglio, vocoidi) sono molto più esasperate nel dialetto foriano che non in quello serrarese.

Anche in questo caso alcuni esempi sono indispensabili, tanto più che le differenze attengono all’articolazione del suono emesso, coinvolgendo lingua, labbra e naso (con riferimento ai tempi di espirazione). Verde fa alcuni semplici esempi: le parole come anno, peccato, piatto, in dialetto foriano vengono pronunciate con uno scambio di vocali (la e al posto della a) in ènne, pecchète e piètte. A tal proposito vanno fatte due considerazioni: la prima è che la e finale è sempre muta, la seconda, che complica terribilmente le cose, è che il dialetto foriano e anche quello serrarese, modulano lo scambio di vocali tenendo conto del genere e del numero dei soggetti resi grammaticalmente. Per intenderci, malète, che sta per malato, si dice di un uomo; al contrario, nel caso in cui l’aggettivo sia riferito ad una donna, si pronuncia malate. Cane, si pronuncia in egual modo al singolare, cane, mentre al plurale cambia tutto e viene reso con chéne.

Venendo alla predilezione per lo iato, Giovanni Verde riconduce la strana sostituzione delle vocali e ed o con i dittonghi ai e au alla dominazione angioina, quindi all’ortografia francese, per cui abbiamo, ad esempio, sàule per sole, catàine per catena.

Questi brevi spunti non sono assolutamente esaustivi della profondità e delle particolarità foniche dei due dialetti del versante meridionale dell’isola - un’altra caratteristica ricorrente è, ad esempio, la sostituzione della consonante d con la l (dito/lìte) - ma sono solo degli accenni a quel "dialetto oscuro", per dirla con Woldemar, che bene spiega cosa abbia significato sul piano storico la combinazione dei contributi linguistici - greco, romano e poi normanno, svevo, angioino, aragonese - con il dato profondo dell’insularità.

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